Nel solco della più oscura scena Experimental Rock, all'inizio del nuovo millennio, si è sviluppata la musica di un gruppo in grado di sbigottire critica e pubblico per via del suo suono straniante e viscerale, in quella che può essere definita una grottesca commistione tra Nina Simone e Krzysztof Penderecki: il progetto Xiu Xiu, a partire dagli esordi di “Knife Play”, ha colto impreparati tutti gli appassionati per via della sua unicità, frutto di uno strazio interiore che divampa in arrangiamenti classici completamente dilaniati dal contorto utilizzo di sintetizzatori e strumentali del tutto atipiche, che in “A Promise” trova i suoi più compiuti elementi chiave in bilico tra i gemiti e i mugolii più flebili e i frastuoni più strepitanti. A causa delle numerose perdite familiari e artistiche, Jamie Stewart, mente portante della band, ha concepito un disco tetro e rassegnato, in grado di scrutare nelle fratture più sordide dell'animo umano.
Le premesse per una traversata dalle più disincantate atmosfere si scorgono a partire dall'evocativa copertina del disco, raffigurante un sex worker vietnamita completamente svestito e fotografato nell'atto di sorreggere una bambola capovolta: quella che apparentemente sembra essere una mera provocazione, pregna di citazionismo clandestino – il riquadro arancione utilizzato come censura per gli organi genitali è un riferimento alla famigerata scena di sesso nel film “Storytelling” di Todd Solondz – e allusioni alla gravidanza, assurge a simbolo della cifra stilistica del progetto, crudamente scarno e disadorno ma allo stesso tempo incomprensibilmente opprimente.
Anche “Sad Pony Guerilla Girl”, preludio dell'album, può rappresentare la perfetta incarnazione delle tinte e dei temi dell'opera: privato della sua veste di giocosa sperimentazione musicale, il brano, partorito con il nome di “Sad Girl” dai XITSJ, precedente collettivo di Stewart, esibisce il distintivo cantato dalla voce lacerata e una strumentale spoglia di tutto fuorché il suono delle corde, che, all'improvviso, vengono per qualche secondo sfigurati dagli schiaffi che il cantante si tira sul viso e totalmente risucchiati dai disumani rumori glitchati di un sintetizzatore che squarcia una progressione armonica fin lì desolata, come a rassomigliare a una spaventosa oscurità che scruta la disperazione di un amore perturbato da tabù e pericoli.
Accompagnando quelle che diverranno le classiche tematiche del progetto, dall'afflizione personale per via di sentimenti sconfortanti al femminismo, passando per disforia, parafilie e amori mai reciproci, anche “Blacks”, con il suo suono più martellante, capace di distorcere i lamenti di Stewart in grida tormentate e disperate, può facilmente divenire summa creativa di “A Promise”, riflettendo, in maniera vivida e profonda sul peso dell'esistenza, mentre cerca di districarsi dolorosamente nella convivenza con il pensiero del suicidio.
Quello che di primo acchito mi ha sorpreso per essere un album pregno di dissonanze sonore portate all'estremo, strumentali irrefrenabilmente schizofreniche e un calibro vocale impressionante sia nell'espressione dell'abbattimento più asfissiante che in quella dello strazio più aberrante, lasciandomi assolutamente disorientato a livello di capacità tecniche finora inesplorate, ho scoperto successivamente essere un album fortemente radicato nella personalità del cantante, fittissimo di tragici riferimenti di vita vissuta e di echi di esistenze miserabili, mediante i quali ha iniziato a storcere e incrostare il mio cuore di ascoltatore, trascendendo il gusto musicale e divenendo una vera e propria esperienza catartica a fronte delle quotidiane assurdità della vita oltre che una discesa nei suoi meandri più inospitali.
Il concetto attorno a cui ruota l'opera è cristallizzato nella promessa che Jamie Stewart, e suo fratello, fecero alla madre prima della sua morte: cercare di sopravvivere all'idea liberatoria del suicidio, ma non arrivare mai a compiere il gesto estremo – che sarebbe tragicamente divenuto, pochi mesi prima della pubblicazione dell'album, il drammatico epilogo della vita del padre. Dunque, il fondamentale tassello di entrata del disco risulta essere inestricabilmente correlato a un ribaltamento esistenziale: una volta penetrati all'interno della frastornante musica di “A Promise” diviene troppo tardi fuoriuscire da un tunnel permeato da spaventosi rumori meccanici di un Industrial consunto, cantautorato tenebroso e passaggi musicali imprevedibili, dove ogni frammento diviene un riferimento specifico della vita di Stewart.
“It's always depresses me to answer this question. I don't mind saying it, but it's really bleak. My mother made me promise her not to kill myself. I am here today because of it. So, thanks Mom.”
Danzando grottescamente tra Eros e Tanatos, le tracce dell'album iniziano a presentare le strutture archetipiche che distingueranno il singolare sound degli Xiu Xiu: subissando la traccia di apertura, “Apistat Commander” deflagra climaticamente in un compendio cacofonico di synth rimbombanti e persistenti in cui la voce di Stewart, strozzata dalle riflessioni anticonservative, introiettate soprattutto in seguito ai moniti paventati dal padre, si immerge in un tormento interiore che ben si amalgama all'utilizzo sperimentale di una drum machine programmabile che tempesta di percussioni non ben identificabili il brano. Da questo punto in poi, il suono stridente e alienante dei sintetizzatori di Cory McCulloch e delle percussioni di Ches Smith si intrufolerà sottopelle per il resto dell'album, come un rumore di fondo inquietante e sempre sull'orlo di dirompere. “Walnut House”, butterata da uno straniante corredo di inusuali percussioni, sapientemente dirette da Lauren Andrews, e pustole orchestrali piano-fiato, presenta una surreale alternanza tra le preoccupazioni della madre di Stewart per la nonna morente in una casa di cura e le estreme perversioni del figlio, che sfocia in una discesa psicotica verso una agghiacciante ecolalia adulterata avviluppata a un bubbolio disturbante.
Dopo l'afflitto e disincantato storytelling, spesso coadiuvato da Yvonne Chen, sull'improvviso trasferimento del fratello in “Brooklyn Dodgers”, traccia attraverso la quale, assieme a “20,000 Deaths for Eidelyn Gonzales, 20,000 Death for Jamie Peterson” e “Sad Redux-O-Grapher”, traspare la cura maniacale del sound design, votata a rendere più dissonanti, atterrenti e devastati possibili i mormorii sgraziati di Stewart, la scarna e toccante cover di “Fast Car” simboleggia in maniera paradigmatica la filosofia del frontman durante quell'orrendo periodo di vita, accentuata da alcune inquietanti modifiche apposte al testo per renderlo ancora più intimo. Oltre agli abbattuti e cullanti ritmi di Tracy Chapman, anche Antony Loyd, scrittore di “My War Gone By, I Miss It So”, report della atroce Guerra dei Balcani e allo stesso tempo diario di un eroinomane, si eleva a simulacro del malessere del cantante nella rumorosamente insistente e brutalmente cacofonica “Pink City”, versione con i vocal offuscati dal Noise di una pariglia di canzoni degli XITSJ.
Sul finale i tormenti di un amore non corrisposto si trasfigurano nel virtuosismo vocale da pelle d'oca di “Ian Curtis Wishlist”, traccia in cui, su una strumentale reminiscente del Drone, si stagliano i disperati e schizoidi lamenti del cantante, finché uno spaventoso sintetizzatore dilata aggressivamente la traccia verso un fragoroso vuoto esistenziale che chiude un'opera venata da una preminente e confusa autocommiserazione così come da una poliedrica – e talvolta addirittura auto-ironica – sperimentazione sonora, capace di ricomprendere clarinetto, salterio ad arco, mandolino elettrico, gong filippini.
“Those sounds [“20'000 Death for Eidelyn Gonzales, 20'000 Death for Jamie Peterson”] are made by Lauren Andrews playing what we refer to as the “pizza violin” [...] – I'm not gonna tell you what the real instrument name is because “pizza violin” is a better name [...]. It's not really made of pizza, but that's probably not a surprise to you... if it is, I'm sorry that I destroyed your musical fantasies... or were you relieved that your favourite food didn't sound like that.”
“A Promise”, mettendo in scena una straordinaria e coraggiosa vulnerabilità attraverso trovate musicali recalcitranti a qualsiasi catalogazione e fuori dal comune, rappresenta un'anomalia nascosta e maledetta nella storia della musica indipendente statunitense oltre che una livida istantanea su quanto disumano possa risultare il dolore e quanto catartica possa essere la creatività: seppur a più riprese reiterata nel corso del disco, la distorta e spiazzante struttura armonica e melodica dei brani mantiene sempre una incognita e imperscrutabile parvenza di terrore e disperazione, in grado di ritrovare lo spettatore inaspettatamente coinvolto e stordito. D'una crudezza che ho sempre trovato tecnicamente ineccepibile, il commovente e disorientato strazio palesato nel disco è riuscito a donare un particolare suono alla mia vita durante uno dei suoi periodi più strani e bui.